Cittadinanza e integrazione: un’opportunità sottovalutata per le PMI italiane
Milano, giugno 2025 – In un contesto economico segnato da carenza di manodopera, invecchiamento demografico e crescente incertezza dei mercati, le piccole e medie imprese italiane si trovano sempre più spesso a dover fare i conti con una sfida strutturale: trovare, integrare e trattenere personale qualificato. In questo scenario, il tema dell’integrazione dei lavoratori stranieri si rivela una leva strategica ancora fin troppo trascurata.
Recentemente, il tema della cittadinanza è tornato al centro del dibattito pubblico, grazie al referendum che proponeva la riduzione del tempo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza italiana da 10 a 5 anni.
Il forte sostegno emerso nelle aree urbane più dinamiche riflette una consapevolezza crescente: la presenza straniera è oggi parte integrante del tessuto sociale ed economico italiano. I cittadini stranieri rappresentano il 9,2% della popolazione residente, pari a 5,4 milioni di persone. Di questi, circa 2,4 milioni sono lavoratori attivi, equivalenti al 10% della forza lavoro complessiva. Guardando alla provenienza, tre su dieci provengono da Paesi dell’Unione Europea (circa 714 mila), mentre il restante 70% è originario di Paesi extra-UE (circa 1,6 milioni).
Sul piano occupazionale, la rilevanza della componente straniera si traduce in dati concreti. Nel 2023, il 35% delle aziende italiane ha assunto almeno un lavoratore straniero. La presenza di manodopera straniera risulta particolarmente significativa in numerosi settori strategici a forte intensità di lavoro operativo, dove rappresenta una componente strutturale e difficilmente sostituibile. I dati parlano chiaro:
· Servizi alla persona e collettività: 30,4%
· Logistica, trasporti e magazzinaggio: 29%
· Manifatturiero: circa 22%
· Agricoltura: 18%
· Ristorazione e turismo: 17%
· Costruzioni: 16%
Questi comparti si contraddistinguono per un’elevata rotazione e per la difficoltà nel reperire personale qualificato. L’apporto degli stranieri non è marginale: è centrale per la tenuta del sistema produttivo.
Fonte: Elaborazione dati I-AER su dati Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
“I dati ci dicono che gli stranieri rappresentano una risorsa concreta per molti comparti produttivi,”– commenta Fabio Papa, professore di economia e fondatore di I-AER, Institute of Applied Economic Research – “le imprese, soprattutto le PMI, ne riconoscono sempre più il contributo nel garantire operatività e continuità, specialmente nei settori dove trovare manodopera diventa sempre più complesso.”
Inoltre, secondo un’elaborazione dati I-AER su dati Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali il fabbisogno di lavoratori stranieri è destinato a crescere significativamente: tra il 2024 e il 2028 si stima un fabbisogno complessivo di circa 3 milioni di nuovi occupati. Di questi, in un contesto di continuo calo demografico, saranno necessari circa 640 mila lavoratori stranieri, pari al 21% del totale. La domanda si concentrerà prevalentemente nei settori ad alta intensità di manodopera e con elevato turnover, riflettendo una segmentazione anche per livello di qualificazione:
· 59% delle posizioni riguarderà profili low-skilled, come operai specializzati, conduttori di impianti, addetti a mansioni non qualificate, soprattutto in comparti come agricoltura, logistica, edilizia e ristorazione.
· 29% sarà destinato a figure intermedie, tra cui impiegati, addetti ai servizi alle persone e alla clientela, spesso impiegati nei settori dei trasporti, commercio e sanità.
· Solo il 12% sarà riservato a profili ad alta qualificazione (tecnici specializzati, specialisti, quadri e dirigenti), destinati a comparti come ICT, sanità avanzata, ingegneria e green economy.
Fonte: Elaborazione dati I-AER su dati Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
Il 41% del fabbisogno totale sarà legato alla sostituzione di lavoratori in uscita (pensionamenti o altre cause), mentre il 59% deriverà dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Questo significa che la necessità di rimpiazzare la forza lavoro esistente sarà uno dei principali fattori che guideranno la domanda di personale nei prossimi anni.
“Non si tratta solo di colmare un vuoto momentaneo,” conclude Fabio, “ma di pianificare con realismo il futuro del lavoro in Italia. I numeri parlano chiaro: senza il contributo della manodopera straniera, molte filiere produttive rischierebbero una crisi strutturale.”
Un futuro che, in realtà, è già iniziato. Le difficoltà nel reperire personale qualificato sono oggi una delle sfide operative più critiche per le PMI italiane. Nel 2024, il 48% delle posizioni richieste non è stato coperto, percentuale che sale al 55% tra le imprese artigiane. Il tempo medio per trovare un nuovo dipendente è di 3,3 mesi, ma può superare l’anno per profili tecnici. Secondo le stime, questi ritardi hanno generato un danno economico di 13,2 miliardi di euro di valore aggiunto non generato.
Eppure, nonostante la crescente centralità di questa forza lavoro, permangono forti disuguaglianze. Il reddito medio dei lavoratori stranieri equivale solo al 70% di quello dei nativi con pari istruzione, scendendo ulteriormente per chi risiede in Italia da meno di 10 anni. Tra gli occupati stranieri, il tasso di povertà relativa è del 28%, contro l’8% tra gli italiani. I giovani nati all’estero registrano però un tasso di occupazione superiore a quello dei coetanei italiani (30% contro 20%), a conferma di una maggiore propensione dei giovani stranieri al lavoro nonostante condizioni più sfavorevoli.
Questi dati riflettono un percorso di integrazione ancora in atto. Nel 2024, infatti, 217.000 cittadini stranieri hanno acquisito la cittadinanza italiana, portando a oltre 1,5 milioni il numero totale di naturalizzazioni nell’ultimo decennio. Un dato che testimonia un crescente radicamento nel tessuto sociale ed economico del Paese.
Un radicamento che si traduce anche in numeri economici di rilievo. Il contributo dei lavoratori stranieri all’economia nazionale è tutt’altro che marginale: essi generano 164,2 miliardi di euro di valore aggiunto, pari all’8,8% del PIL italiano. Anche dal punto di vista fiscale l’apporto è positivo: nel 2023, i contribuenti immigrati hanno dichiarato complessivamente 72,5 miliardi di euro di reddito e versato 10,1 miliardi di euro di IRPEF, con un saldo netto per lo Stato pari a +1,2 miliardi. Le principali fonti di gettito derivano da imposte sul reddito, contributi previdenziali e IVA, mentre la spesa pubblica destinata alla popolazione straniera – inferiore alla media pro capite nazionale – si concentra su servizi essenziali come istruzione, sanità e assistenza primaria.
Fonte: Elaborazione dati I-AER su dati Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
Eppure, nonostante questi dati positivi, molte imprese sembrano ancora sottovalutare il valore strategico dell’integrazione della manodopera straniera. Secondo un’indagine condotta da I-AER su un campione rappresentativo di 658 imprenditori distribuiti su tutto il territorio nazionale, solo il 47% delle aziende riconosce l’importanza di investire nella stabilizzazione e fidelizzazione dei dipendenti stranieri, mentre il restante 53% non ne percepisce l’urgenza o l’impatto potenziale.
“Questa manodopera segnerà il nostro futuro,” sottolinea Fabio Papa. “ma perché questo contributo si traduca in successo per le imprese, non possiamo lasciare soli né i lavoratori né gli imprenditori. Servono strumenti concreti: corsi di lingua, percorsi formativi, tutoraggi sul posto di lavoro. L’integrazione non è solo una questione culturale o un gesto solidale: è una scelta economica razionale. In un contesto in cui i lavoratori stranieri sono spesso penalizzati da differenziali salariali e segmentazione occupazionale, fornire loro competenze adeguate significa per le PMI maggiore stabilità nei team, migliore qualità del lavoro e minore turnover. Il capitale umano straniero, se valorizzato, può diventare una leva strategica per la crescita e la competitività delle imprese italiane.”
Dall’analisi emerge con chiarezza che il tema dell’integrazione dei lavoratori stranieri rappresenta una sfida cruciale — e al tempo stesso un’opportunità concreta — per il sistema produttivo italiano, in particolare per le PMI.
Tre sono i punti fondamentali da tenere in considerazione:
1. Una risposta strutturale alla crisi demografica e occupazionale
In un’Italia che invecchia e perde popolazione attiva, la crescita della componente straniera ha contribuito a mantenere stabile il saldo demografico e a sostenere l’offerta di lavoro, soprattutto nei settori ad alta intensità di manodopera. Nei prossimi cinque anni, si stima un fabbisogno di 640.000 nuovi lavoratori stranieri: un dato che non può essere ignorato nella pianificazione delle politiche industriali e occupazionali.
2. Un apporto economico e fiscale tangibile
I lavoratori stranieri generano ogni anno oltre 160 miliardi di euro di valore aggiunto, pari all’8,8% del PIL nazionale. Contribuiscono in modo significativo alle entrate fiscali e previdenziali, con un saldo netto positivo per lo Stato, a fronte di una spesa pubblica pro capite inferiore alla media. Si tratta di una forza lavoro che, se adeguatamente valorizzata, può rafforzare la tenuta economica del Paese.
3. Una leva strategica per la competitività delle PMI
Nonostante i numeri e il radicamento crescente, l’integrazione dei lavoratori stranieri è ancora poco supportata a livello di strumenti concreti. Solo il 47% delle imprese ne riconosce il potenziale in termini di stabilizzazione e fidelizzazione. Tuttavia, dotare questi lavoratori di competenze linguistiche, tecniche e relazionali può tradursi per le imprese in maggiore produttività, qualità del lavoro e riduzione del turnover.
In sintesi, l’integrazione non è solo una questione sociale ma un investimento, che, se ben gestito, può tradursi in un vantaggio competitivo per l’intero sistema produttivo italiano.
Domenico Ciancio
Corporate Communication & Public Affairs Manager Consultant
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